Il bimbo della foto si trova nella scuola elementare di Ravigliano coinvolto in una recita scolastica natalizia. Il bimbo ha trovato in questa scuola un ambiente amorevole e, soprattutto, una maestra così amabile che l'ha descritta nel romanzo della sua vita (romanzo non dato alle stampe).
Il nome di questo bimbo lo trovate alla fine di questo lungo brano.
Fino alla terza classe la scuola mi aiutò molto; avevo un’insegnante stupendamente dolce, mi riempiva di baci ogni volta che facevo qualcosa di buono: un dettato ben riuscito, un bel disegno o semplicemente delle formine di carta ben ritagliate. Avevo una vera e propria passione nel ritagliare formine di carta, anche se a casa mi era proibito far “cartacce in giro”.
La nostra era una scuola a dir poco umile: la mia aula era composta da soli sette alunni, tre della prima e quattro della seconda elementare. La maestra si alternava a spiegare la lezione prima agli uni poi agli altri.
Il primo giorno di scuola lo ricordo bene perché piansi molto. Tutti durante i mesi precedenti, quando facevo capricci, mi ammonivano dicendo:
"Sei grande, tra poco andrai a scuola, pensi di fare i capricci anche lì? La maestra ti metterà in castigo."
Perciò credo che la mia paura fosse quella di incontrare una nuova persona pronta a punirmi non appena avessi sgarrato. Per fortuna non fu così.
Quasi nulla c’era di organizzato in quell’edificio, se devo essere sincero, ma per istruire una manciata di folletti dai sei ai dieci anni non c’è bisogno di molto: solo tanta sensibilità e tanta voglia di far bene e, di queste cose, ve n’erano in abbondanza. Le maestre erano tutte giovanissime e per questo molto motivate. Non vi era un Preside o una qualche figura di rilievo nella scuola da che ricordi e, il primo giorno, le docenti si spartivano gli alunni come fossero caramelle.
A me toccò una simpatica biondina dai capelli lunghi e gli occhi chiari; Ernestina si chiamava. Del suo aspetto fisico non ricordo altro, neppure il suo volto è molto chiaro nella mia mente, ma chiarissimo è il ricordo della sua anima pulita e del suo entusiasmo per il lavoro che faceva. Ho sempre pensato di essere il suo preferito, ma oggi credo lo pensassimo un po’ tutti, tanto era brava a farci sentire bene.
Spesso le lezioni si svolgevano fuori, nel cortile, quando era bel tempo, e diventavano così piacevoli da invogliarci ad andare anche a quelle del pomeriggio che, allora, erano facoltative. Sceglieva con cura lei stessa i libri di narrativa da leggere durante le vacanze, tra i pochi disponibili nella nostra, povera ma dignitosa, biblioteca. Così facendo evitava di farcene comprare uno uguale per tutti con l’inconveniente di avere una serie d’inutili doppioni.
Per le vacanze della terza elementare me ne diede uno quasi di nascosto. Lo scelse prima degli altri dalla pila e me lo passò con uno sguardo d’intesa, come se mi stesse facendo un bel regalo, come se mi stesse per qualche motivo prediligendo rispetto agli altri. Quello che per me era una pena da scontare, un piccolo prezzo da pagare per godersi la spensieratezza dell’estate, per lei era un dono, e me lo diede con una tale complicità che quasi mi strappò un “grazie”. Non avrei potuto comprendere a quell’età, ma oggi capisco il perché. Lei mi considerava davvero uno dei suoi studenti migliori e scelse per me quello che riteneva il più adatto. Il libro si intitolava “La capanna dello zio Tom”.
Prima della fine di quell’estate passò lei stessa a casa mia per riprenderlo, e così non finii mai di leggerlo. L’anno scolastico successivo, ci disse, lo avremmo passato tutti in un’altra scuola, quella in città. In quella nostra, purtroppo, non si era raggiunto il numero minimo di iscritti perché potesse continuare ad esistere.
Il nostro edificio sarebbe stato chiuso e, successivamente, destinato ad altri scopi.
Quella fu l’ultima volta che vidi la mia “Signora Maestra Ernestina”.
Chissà dove sarà oggi, se continua ad insegnare e, soprattutto, se lo fa ancora con lo stesso entusiasmo. Il suo è un lavoro difficile, carico di grande responsabilità, dove facilmente si può perdere il senso e lo scopo di tutto.
Un insegnante, non vede quasi mai i frutti del proprio lavoro. Impiega il suo sapere e, perché no, i suoi sentimenti aiutando a far crescere meglio che può i suoi allievi, condividendo con essi gran parte del suo tempo, spendendo energie, quasi fosse una seconda mamma. Gli anni per lei passano ma, al contrario di ciò che per una madre può essere, i suoi bambini hanno sempre la stessa età. Non vede le sue “creature” crescere fino a diventare adulti e mettere in pratica ciò che da lei hanno imparato, li guarda soltanto sparire nel mondo come granelli di sabbia su una spiaggia.
Se fosse qui ora le direi di continuare ad essere entusiasta del suo lavoro, perché lo sa fare bene. Le vorrei assicurare che tutto ciò che è stato è vivo dentro di me e nelle cose che faccio. Come tutto ciò che era parte di quella scuola: l’eco delle sue parole, le lettere dell’alfabeto appiccicate alla parete e l’odore della vernice fresca sui muri. Lei mi ha insegnato a leggere ed ora leggo i miei libri, mi ha insegnato a scrivere ed ora scrivo il mio libro.
Ricordo che una volta la mia maestra, mi coprì letteralmente di baci -non dimentico ancora il loro schiocco - perché osai mettere su dei versi per la Festa Del Papa’ dei puntini di sospensione. Non mi era stato ancora insegnato, disse, ma lo sapevo fare lo stesso. Figurarsi che differenza con casa mia dove ogni iniziativa veniva punita.
Ricordo anche il giorno che diedi la lettera ad Andrea, gliela misi, come si suol fare, sotto il piatto. Lui però era analfabeta e gliela lessi io ad alta voce. Ero rosso di vergogna, poche ore prima avevo subìto i suoi insulti ed ora ero lì, alla presenza di mia madre con le lacrime agli occhi, che gli dicevo un sacco di belle cose, le belle cose che tutti i bambini dicono al loro papà nel giorno della sua festa.
Luca Di Pietro
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